24 agosto 2016

A me la barba me la fa Mario di Campolieto



L’ultima volta che ero stato dal barbiere avevo tre anni ed ho un vago ricordo di quel tardo pomeriggio invernale. Umberto, così si chiamava l’artista del taglio, mi offrì una Galatina per farmi stare buono e diede il via ad una lunga serie di tagli “a melone” che mia madre, con pettine e forbici, portò avanti fino all’arrivo in casa della macchinetta elettrica.
Così, tanto per raccontare, ricordo che da bambino ho sempre avuto una particolare passione per la barba. Una volta, avevo otto anni, approfittai dell’assenza in casa di mia madre e presi tra le mani un grosso “batuffolo” di schiuma, la stesi per bene sulle piccole guance e, con la lametta incappucciata fingevo di radermi. Purtroppo l’inconveniente era dietro l’angolo: si sfilò il cappuccio della lametta e, senza volerlo, rasai a zero un bel pezzetto di sopracciglia. Onde evitare i rimproveri di mia madre, misi un bel cerotto nella zona rasata con l’intento di raccontare un infortunio rimediato per giocare a pallone sotto casa. Mio fratello, che aveva assistito alla scena del taglio, annunciò la disavventura a mia madre appena lei rientrò a casa: “Mà! Stefano s’è tagliato la sopracciglia!”. Seguì uno scappellotto e pure una punizione.
Negli anni dell’adolescenza, quando non avevo nulla di più che un paio di baffetti, dopo che mia madre mi aveva tagliato i capelli correvo in bagno, inumidivo le guance e ci appiccicavo sopra i capelli tagliati che erano rimasti sulla testa e così, allo specchio, provavo a vedere che razza di bell’uomo sarei stato con la barba!
E finalmente, durante il terzo superiore, sono spuntati i basettoni, poi il pizzetto ed infine una bella barba sulle guance. Durante il primo anno di università radevo la barba a zero solo il giovedì sera in preparazione alle uscite del fine settimana. Poi ho iniziato a far crescere barba e capelli durante il periodo degli esame e oggi, per trascuratezza, lascio crescere la barba come vuole e quando supera il centimetro di lunghezza iniziano a intravedersi riflessi rossastri che non ci si aspetta.


Tutta questa premessa per raccontare una bella storia di questa mattina. Ho approfittato di una delle ultime giornate di ferie per fare un giro tra i paesi del Molise e sono capitato a Campolieto. Appena sono entrato nel centro storico ho notato, dietro una vetrina, che qualcuno lavorava di forbici e spazzola. Ho bussato e sono entrato chiedendo di scambiare due chiacchiere e scattare qualche fotografia. Il cliente, avendo già finito la sua seduta, è balzato in piedi dicendo “No, no, niente fotografie…non ci voglio andare sui giornali del mondo!”.


E così siamo rimasti io e il barbiere. Tra una parola e l’altra mi sono trovato sulla sua poltroncina pronto ad accorciare un po’ la barba e ad acconciare i capelli sulla linea del collo. Il buon Mario mi ha confessato che, vedendomi entrare, pensava fosse qualcuno di quelli che fa le truffe o, peggio ancora, qualcuno in divisa! Il barbiere, si sa, deve saper intrattenere i suoi clienti e così, sempre in dialetto strettisimo, abbiamo parlato del terribile terremoto che stanotte ha colpito Amatrice, poi abbiamo parlato del mio lavoro, della mia famiglia e, soprattutto, di chi fosse il mio barbiere. Be’, attualmente, il mio barbiere è sempre mia madre oppure, quando perdo la lucidità, sono io stesso ad impugnare la macchinetta e a mietere capelli su capelli. Intanto lui continuava il suo lavoro aggiustandosi di continuo i pantaloni “Je, magne e magne, ma me calane sempe le cauzune!” che tradotto vuol dire “Io mangio di continuo ma i pantaloni mi calano sempre!”.


Finito il taglio, Mario, con una bella spennellata, mi ha reso presentabile e, addirittura, mi ha spruzzato un profumo da vero uomo. Poi, con il più classico gioco di specchi, mi ha fatto rendere conto del lavoro raffinato dietro il collo e mi ha invitato ad osservare la rifinitura – abbastanza estrosa – dei baffi. Intanto i suoi canarini fischiettavano e gli altri clienti entravano per sistemare i capelli o solo per fare due chiacchiere.


Una volta saldato il conto ed annotato l’indirizzo per spedire le fotografie, il buon Mario ha chiuso la bottega, si è messo sul suo “Scut” (scooter) e mi ha aspettato al bar per offrirmi un graditissimo thè.


Forse, forse, il buon Mario mi ha dato un’idea…

11 gennaio 2015

Un maestro di fotografia, un maestro di umiltà: Tony Vaccaro

Io lo so troppo bene come usano fare i molisani dalla mezza età in su: escono la mattina e poi, dopo pranzo, riescono in piazza fino a quando inizia a fare scuro. Da lì si spostano nei bar per la partita a tre sette, per un bicchiere di vino e per qualche brutta parola contro la politica o gli arbitri. E questo che dico è una delle poche certezze che ho perché di paesi ne ho girati tanti, in tutte le stagioni ed in tutti i giorni della settimana!

Siccome ho saputo che Tony Vaccaro era in visita nella sua cara Bonefro, ho pensato di andare a trovarlo. Ero più che sicuro che nel primissimo pomeriggio di un caldo sabato di gennaio lo avrei trovato nella piazza del paese a chiacchierare con i vecchi amici. Arrivato a Bonefro c'erano tutti in piazza, tranne Tony Vaccaro!
Ho chiesto un po' a tutti "Sa dirmi se il fotografo Tony Vaccaro è in giro per il paese? Sa dirmi se riuscirò a trovarlo qui?" Ma nessuno ha saputo rispondermi (ahimé, qualcuno non riusciva a capire di chi stessi parlando).
Poi, finalmente, un primo segnale: un signore curioso mi ha chiesto "Chi cerchi? U merecane?" Certo, io cercavo proprio "l'americano", ma neppure in questo caso ho ottenuto informazioni.
Un po' preoccupato di non riuscire a trovarlo ho iniziato a girarmi intorno cercando di intercettare i suoi capelli bianchi e nel frattempo mi sono avvicinato ad un signore che, ascoltando la mia domanda, ha preso il suo Nokia 3310 ed ha composto un numero: "Mo chiamiamo al parente che lo ospita, vediamo se ti fanno andare...telefono spento!"
E pure questa volta non avevo risolto nulla. Di colpo questo signore qui, Antonio, mi ha detto di andare con la mia macchina a casa di una signora molto vicina a Tony. Siamo andati e la gentilissima Graziella ci ha immediatamente detto dove potevamo trovare il maestro Vaccaro: era a pranzo dalla fioraia la quale era stata immediatamente messa al corrente della mia visita. Tony Vaccaro era lì ad aspettarmi.
Due minuti più tardi, salita una lunga scalinata, siamo entrati nella sala da pranzo piena di invitati. A capo tavola c'era il grande Vaccaro, immerso in uno dei suoi racconti pieni di passione.
Nel suo italiano quasi perfetto, completato con vocaboli inglesi, mi ha detto: "Ciao! Prendi una sedia, mettiti qui vicino. Vogliamo bere dello champagne?"
Un'accoglienza che mi ha lasciato a bocca aperta: uno spirito ospitale ed aperto a conoscere nuove persone.
Da quel momento in poi il tempo è volato ma per molto più di due ore Tony Vaccaro mi ha raccontato delle sue foto, della sua vita, dei suoi sogni di bambino e di come la sua voglia di fare il meccanico che disegna auto e motori si sia trasformata in un'avvincente vita da fotografo di guerra e di moda.
Abbiamo brindato, mi ha firmato un libro, gli ho regalato il libro dell'associazione fotografica sulle manifestazioni molisane, ed abbiamo fatto una fotografia insieme; la fotografia n.597 scattata dalla mia reflex.


Poi ci siamo spostati al museo a lui dedicato e lì, con il nostro umile libro sempre tra le mani (non perdeva occasione per ringraziarmi del pensiero), mi ha raccontato delle sue fotografie. C'erano degli ospiti lì, persone che lo conoscevano bene. Eppure ha avuto il garbo di non lasciarmi mai in disparte. Ad un tratto, con un buffetto sulla guancia, mi ha detto che, se volevo, potevo scattargli il ritratto che gli avevo chiesto, davanti alla fotografia che più mi piaceva.


Un attimo dopo lo scatto, essendo un po' stanco, mi ha firmato l'agenda, mi ha calorosamente salutato, ha rimesso la coppola e con le sue scarpette da ginnastica ha ripreso la strada di casa con un passo vispo da giovanotto...sempre tenendo stretto tra le mani il libro che gli avevo regalato, incredibile.
Potrei appuntare sue questa pagina tutte le storie che mi ha raccontato sulle fotografie che mi ha fatto vedere, ma non saprei farlo come lui.


Ha detto che tornerà, non dobbiamo preoccuparci, tornerà. Ed io lo aspetto perché vorrei ancora parlare con lui e ringraziarlo per il pomeriggio meraviglioso che mi ha regalato.

3 novembre 2014

Acquaviva in italiano...Živavoda Kruč in croato

Una volta parlai per una decina di minuti con un sordo muto: mi accorsi del suo disagio quando completai presentazione e discorso. Un'altra volta, invece, in mezzo a degli amici del nord Africa mi sono accorto di essere io il "muto". Proprio così: quando mi rendo conto che la mia lingua non può essere compresa da chi mi sta intorno entro nel panico! Il linguaggio è una cosa così strana...
Quando penso alle varie lingue volo con l'immaginazione oltre le Alpi, oltre il mediterraneo, eppure la mia mente non si può dire accorta a certi dettagli: in questo Molise qua, quasi più piccolo di una provincia, se ne sentono di tutti i dialetti. Quelli che mettono le "e" al posto di tutte le vocali; quelli cantilenati; quelli "ruvidi"; quelli del mare e quelli della montagna. Ma non solo: a pochi km (ma molte curve) da Campobasso ci sono paesi in cui si parla una lingua completamente diversa dalla nostra. Si tratta dei paesi che hanno radici balcaniche. Di questi posti ne so veramente poco e quello che so lo devo al mio caro amico Antonio che li sta studiando per la sua tesi di Laurea.
Le loro storie sono affascinanti e movimentate e ieri, per puro caso, mi sono trovato a viverne una parte girando dentro Acquaviva Collecroce.
Ero con Maria e Paquito, un boxerino con antenati tedeschi, nome spagnolo ed abbaio molisano!
Tutti e tre ci siamo avviati seguendo le indicazioni di Daniel, una voce femminile prestata al mio navigatore. Non so se mi fiderò ancora di lei visto che mi ha consigliato una strada fatta di curve abbinate a salite, dossi, discese e, sopratutto, fossi...VORAGINI!


Quando non ci credevamo quasi più, siamo arrivati alle porte del paese. Lì sono sceso per fotografare il paesaggio dominato dalla neve del Gran Sasso e proprio in quel momento sventolava un cartellino rosso nel campo che ospitava la partita tra Acquaviva (in maglia a scacchi, come quella della Croazia) e Guardialfiera!
Entrati nel paese abbiamo iniziato a girare tra i vicoli con il nome italiano e quello croato. Il borgo, seppure poco curato e prossimo a crollo, é un presepio: scalinate, archi, vicoli stretti e affacci sulle colline. Dentro le case diroccate si notano alcune particolarità che non ero abituato a vedere in Molise: mi vengono in mente i mattoni rossi usati per costruire, visibili dove manca l'intonaco oppure gli architravi fatti ad archi composti che restano in piedi solo per grazia divina.


Come al solito io giro nei borghi seguendo la curiosità per cui è raro che le mie passeggiate siano ordinate. Mi lascio condizionare dai dettagli, ingannare dai vicoli con i panni stessi ed incantare dalle voci e dai profumi di sugo, di frutta o di fiori.


Spesso questo modo di fare mi premia e questa volta è capitato di ascoltare  una voce giovane che parlava una lingua sconosciuta a cui si sovrapponeva una voce più anziana. Ho lasciato che per qualche minuto quelle voci non si accorgessero di noi e piano piano ho trovato la stradina che conduceva al dialogo straniero. Preso dalla curiosità ho pensato di uscire allo scoperto! Tra il rumore dell'acqua ed il profumo del vino nuovo ho trovato nonno e nipote che trascorrevano in serenità i minuti del tramonto. Il giovane lavava una grande damigiana evitando che il lavoro lo facesse suo nonno ancora vispo ma con l'aria di chi vuole solo godersi l'età della saggezza.


L'anziano aveva occhi chiari, la coppola sui capelli bianchi e un foulard giallo e rosso intorno alla gola. Mi ha sorpreso quando in un solo istante ha cambiato lingua iniziando a parlare con me in italiano. Dopo uno scambio rapido di battute lui se ne stava rientrando in casa ed ho provato a fotografarlo con il telefono. Ecco: quando serve la macchina fotografica non ce l'ho mai! Questa domenica l'avevo lasciata a casa per provare ad osservare e memorizzare il mondo solo con i miei occhi. Tentativo fallito alla grande.
Consapevole di non essere riuscito a fare il ritratto rubato che speravo, ho chiesto al buon uomo di farsi fotografare ed ha subito accettato accogliendo il mio suggerimento di sedersi su un gradino illuminato di taglio dall'arancio del tramonto. Proprio gradino era l'accesso alla sua casa natale incorniciata dai rami della vite. uno, due, tre...tanti scatti fatti alla meglio, forse non eccezionali nella resa ma incredibilmente evocativi nel contenuto. Terminata la "sessione" fotografica abbiamo continuato a chiacchierare e, prima di lasciar cadere il tramonto dietro l'Abruzzo, ci siamo salutati con un dito di un ottimo vino rosso frizzante!


Quanti portali scolpiti ho contato ad Acquaviva: portano ancora i segni del passaggio dei templari, altri simboli e finanche, sotto la Chiesa, il quadrato magico "rotas opera tenet arepo sator".


Si sa che passato il mese di ottobre la notte cala in fretta: alle 17.30 era già quasi buio e così, accompagnati dalle campane stonate, siamo ripartiti andandoci a perdere per una strada senza uscita. Fortuna ha voluto che un cacciatore, insospettito dalla nostra auto, ci ha seguito pensando che fossimo ladri/fuorilegge e, sceso dalla macchina con aria minacciosa, s'è ravveduto e ci ha indicato la strada per tornare a casa!